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È un  sabato mattina di sole.Piscinola non è NewYork.E nemmeno Soweto.
Forse qualcosa somiglia a Clichysur bois, dove gli Algerini diParigi anni e anni fa incendiavano i cassonetti per urlare il loro disagio e il loro male di vivere.
Dovevano ancora venire gli accampamenti alle porte di Parigi, sotto i viadotti di Ventimiglia, doveva ancora venire Calais e tutto quello che poi si è andato ad aggiungere ai tormenti di chi voleva un refolo di speranza che invece i “più”avevano deciso di negare loro.
Piscinola è un quartiere tra Miano e Marianella, dove si è sempre suonato. C’erano gli “Showmen”, storie di anni Sessanta- quasi Settanta e un indioamericonapoletano cantava “Un’ora sola ti vorrei”.
Si chiamava Mario Musella, ma anche se aveva una voce da far impallidire James Brown non durò a lungo.
Storie di povertà e di successi non saputi gestire, storie di ballatoi che grondavano melodie udite a Sanremo, storie di chi sotto sotto sentiva di non “meritare” quel ben di Dio. Piscinola doveva essere il rione del Salvatore.
Il Santissimo Salvatore che si festeggiava il 6 agosto e tutti a cantare nella grande festa tra bancarelle di cozze, tavolini all’aperto, tra Mario Abbate e Tony Astarita. Finita la festa, ritornava l’oblio.
Ragazzi che andavano per muratore, carpentiere, ragazzi che andavano a guardare come i loro coetanei del centro ridevano in faccia alla vita
mentre essi da quella vita si sentivano esclusi. E non sapevano di avere dei diritti. Nessuno glielo aveva mai detto. Si rintanavano nelle loro umide case di Vico degli Operai e aspettavano il Napoli la domenica, tra un cartoccio di paste e qualche ragazza da fermare su via Vittorio Veneto.
Li ho visti così, li ho toccati, sono stato uno di loro, un fratello, un cugino, un amico. Spesso si davano dei soprannomi fantastici: Totonno l’Infinito (perché era alto), ‘o McKenzie, Capaianca (perché prematuramente imbiancato), ‘o Ninno, ‘o Chiatto, Littletony (uno con delle basette oscene che diceva di amare e imitare la leggenda dell’Elvis de’ noantri).
Sono andati per vite sparigliate, in cerca di una Milano salvifica in imprese di costruzioni che osavano, ma la maggior parte è rimasta ad invecchiare all’ombra del Bar De Rosa e del Bar Abbatiello che si facevano concorrenza come Guelfi e Ghibellini. Li ha storditi la vita
con le sue impellenze e le sue sopravvivenze, qualcuno è entrato in qualche impresa di pulizia, qualcuno è sceso a fare iguai, a rubare, storie di scippi e piccoli furti in macchine senza assicurazione, tra stereo scalcinati che cantavano nenie di amori bugiardi e tradimenti che non sapevano ancora di femminicidi.
Qualcuno si è salvato, qualcuno è andato. E mentre loro portavano avanti quelle magre esistenze, arrivavano dalla città in seguito al terremoto dell’80 nuove squadre, nuovi volti, persone e famiglie che venivano da Piazza Carlo III piuttosto che da Porta Capuana, gente che era
venuta ad occupare appartamenti sfitti in palazzoni che sembravano anche belli e avevano anche l’ascensore e c’erano degli spazi davanti dove i ragazzini avrebbero potuto giocare. Uno di questi ragazzini lo chiamavano Pippotto, anche se si chiamava Mimmo.
E dai dodici- tredici anni, Pippotto divenne già una leggenda. Da quando andò a Marano a rubare un cavallo. Perché amava gli animali, in
particolare i cavalli e non potendo possederne alcuno, si mise in testa di rubarlo.
Quando i proprietari andarono a ritirarlo non potevano credere che un pischello, un soldo di cacio, un ragazzino veramente piccolo, avesse potuto rubare da solo il cavallo. E invece cominciò la sua storia. Il padre, quando non era in carcere, cercava di redimerlo, cercava di non fargli mancare niente, di minacciarlo, di legarlo con le catene ad un letto. Ma non c’era niente da fare. Pippotto aveva un’energia vitale e una
voglia di rubare o di prendersi quello che la vita non gli aveva dato che era più forte di qualunque divieto.
E in poco tempo le sue malefatte arrivarono ovunque. Per tutta la città e l’hinterland. Non c’era qualcuno delle forze dell’ordine che non conoscesse Pippotto. Era una furia, un Robinhood dei poveri, un ragazzo che se un fratello gli diceva: me la vuoi comprare questa cosa? Lui non ci pensava un attimo di più su e scendeva a fare guai.
La madre oberata da praticamente si era ormai arresa, nonostante facesse di tutto per placare l’onda tsunamica delle gesta di suo figlio. Minorenne che faceva fatica ad accettare le regole, forse perché nessuno gli aveva detto cos’erano le regole o semplicemente perché la sua
natura, la sua testa, la ribellione che si portava dentro unita alla rabbia di vedere “le cose storte”, lo induceva a delinquere.
Ora è detenuto in un carcere all’Isola D’Elba. Chissà se uscirà. Chissà quando uscirà.
Ho visto sua madre e suo padre. Ho conosciuto i suoi fratelli in un sabato mattina che il sole era così bello che sembrava rendere belli anche quei palazzoni dove la gente per sopravvivere faceva la riffa, giocava a tombola anche d’estate e dove la maggior parte di loro avevano occhi belli su sguardi tristi.
Sembra un paradosso e invece era ed è cosi. Ora che Pippotto è lontano, i fratelli lo ricordano con dolcezza e tenerezza e mai dimenticano di quando lui per accontentarli andava a rubare giocattoli, scarpe, vestiti, tutto quello che con l’assenza del padre a loro mancava.
Anche se il padre si dava da fare, anche da lontano, per non far mancare loro niente. Ma forse a Pippotto e ai suoi fratelli mancava una carezza della sera, un gesto lieve, una tavola apparecchiata la domenica con i commensali uniti. Mancava la scuola, il sapere di un maestro, la capacità di non farlo sentire un poco di buono, un ladro, un questo o un quello.
Ora i suoi parenti conservano le foto di quando era piccolo, di quando i giornali ormai lo descrivevano come il terrore della città piuttosto che la partecipazione di suo padre al Costanzo Show. Ormai tutto il Circo Barnum della comunicazione era arrivato in quei palazzoni di Piscinola dove era più facile diventare delinquente che un cantante o un attore. Un sarto griffato o un artista di pop art.
La madre è una madre. Mater dolorosa. Mater di tutte le madri.
Il padre ha avuto una vita avventurosa ma quando parla di Mimmo gli occhi gli diventano lucidi. Quando sono sceso da quella casa, avevo una rabbia in corpo che non riuscivo ad espellere. Ma anche un alone di dignità che mi aveva avvolto le membra e la testa. Mi hanno invitato a
mangiare qualche domenica con loro. Certo che ci andrò. Perché la vita e l’amore che ho sentito in quella casa so di non poterla trovare in nessun loft di Londra o NY.
Mi accompagnano gli occhi e la barba di Ramon, un altro figlio, che sembrano indicarmi la strada. Ma la conosco la strada. È sempre quella.
È la strada di chi ha visto, sentito, toccato, amato. Prima di andar via ho chiesto al padre: da quanto tempo non vedete Pippotto?
Mi risponde: ci vado ogni due mesi. È lontana l’Isola D’Elba. Gli hanno tolto la milza, mi dice. Chissà quante mazzate avrà
avuto in una vita di carcere, quel povero figlio mio.
Fino a spappolargli la milza. E abbassa gli occhi che lanciano lacrime di rabbia.
Fuori il sole sta accarezzando tutt’intorno.
Nell’aria qualcosa che assomiglia ad un ragù per il domani.
Domenica, bella domenica.

 

PEPPE LANZETTA

(22/05/2018)

 

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